La letteratura ci salverà dall’estinzione – Carla Benedetti e Tommaso Giartosio

 

La letteratura ci salverà dall’estinzione

( intervista andata in onda a  “Fahrenheit “ di Radio 3, il 22 febbraio 2021)

 

Tommaso Giartosio. Abbiamo detto più volte che riflettere sulla condizione del mondo in questo momento, in particolare per quanto riguarda la pandemia, significa affrontare una questione che in realtà è parte di una questione molto più ampia, quella della crisi ambientale, della grande crisi che rischia di travolgere l’umanità in tempi molto brevi. Questa crisi ha un rapporto anche con il ruolo della cultura e della letteratura. E l’argomento che lei affronta nel libro La letteratura ci salverà dall’estinzione, pubblicato da Einaudi.

Le proporrei di iniziare con una questione di metodo che è la premessa di ogni ragionamento sulla letteratura nel contesto della crisi ambientale. E cioè: la letteratura deve essere portatrice di messaggi positivi, deve stimolare il cambiamento culturale, è questo uno dei suoi compiti?

Carla Benedetti. Bisogna però intenderci con la parola “letteratura”, perché di solito quando parliamo di “letteratura” ci riferiamo a una classe astratta che comprende tutto, le grandi opere e la schiuma. E poi la modernità ce ne ha dato un’idea abbastanza ristretta, rispetto a quella che è invece la sua potenza e la sua forza. Io credo che la letteratura oggi, come lo è sempre stata nella storia delle civiltà, sia un mezzo fortissimo per stimolare un cambiamento dei modi di pensare, quelli che ci stanno appunto portando alla catastrofe. Che possa allargare l’orizzonte, risvegliare delle risorse che sono state addormentate da quegli stessi schemi mentali che ci hanno condotto a questo punto. Che possa espandere le nostre facoltà. Perché è un mezzo di comunicazione capace di raggiungere non soltanto le menti ma anche i cuori, che parla non solo all’intelletto o alla ragione strumentale, ma anche all’immaginazione e al sentimento.

Quindi non parlerei di ruolo, di cosa la letteratura deve fare, ma di cosa fa e di cosa ha sempre fatto in tutto il corso della civiltà umana. L’idea di letteratura, che è stata egemone nell’Occidente moderno, nutre piccole aspettative nei confronti dell’arte della parola: le si chiede o intrattenimento oppure conoscenza, cioè che ci rappresenti la realtà, la realtà del tempo. Però è un ruolo ben piccolo, se pensato in questo modo. Come se questa pratica antica fosse solo in grado di diffondere delle conoscenze, o di riflettere dei mutamenti che provengono da altri saperi o dalla società, e non di essere invece lei stessa produttrice di tali mutamenti, produttrice di una metamorfosi nell’uomo odierno.

TG Per arrivare al cuore della questione affrontata nella Letteratura ci salverà dall’estinzione – la questione, cioè, di una catastrofe ambientale che ormai ci minaccia da vicino, e della necessità che le opere letterarie facciano qualcosa di fronte a questo pericolo: noi viviamo in anni in cui la presenza di romanzi apocalittici è molto ampia in tutta la produzione letteraria, sia nelle opere di mercato sia in quelle rivolte a un pubblico più attento o con strumenti culturali diversi. Però lei dice: attenzione! questa letteratura apocalittica non necessariamente sviluppa una coscienza e un attivismo nei confronti del pericolo che corriamo. È così? E come mai?

CB È vero. Svilupperà consapevolezza nei confronti del pericolo che corriamo, però può suscitare paura, sgomento e in definitiva anche un senso di paralisi. Perché la caratteristica dell’apocalisse e dello schema mentale apocalittico, che si è diffuso molto del nostro tempo, è di prospettare una catastrofe ineludibile, contro cui non si può fare niente: o perché è portata dalle caratteristiche immutabili dell’uomo, dal suo DNA, o perché è portata dalla storia, dallo sviluppo del capitalismo, delle forze produttive. In ogni caso ci manda il messaggio: “non puoi farci nulla”.

Io penserei invece a tutte quelle opere di pensiero, di poesia, narrative, che ci prefigurano, che hanno il coraggio di guardare in faccia questa catastrofe che noi rischiamo di raggiungere, ma nello stesso tempo hanno anche la forza di suscitare un altro tipo di reazione, di trasportare anche un’energia sentimentale che superi il senso di impotenza. A me pare che questo schema apocalittico che si è molto diffuso nel ‘900 e anche nel nostro tempo – certo, ci sono casi e casi, ma in generale – abbia la caratteristica di pietrificare l’esistente e non di suscitare un senso di emergenza e di spingere all’azione, a un’azione adeguata al pericolo che stiamo correndo. Ricordiamo che noi siamo una specie in via di estinzione, come ci dicono gli scienziati ormai da quasi tre decenni. Jared Diamond già in un suo libro del 1992, Il terzo scimpanzé, parlava degli uomini come di una specie in via di estinzione, usando questo termine proprio nel suo senso tecnico, cioè di specie che hanno ancora individui vivi ma che rischiano di scomparire. Noi siamo quasi 8 miliardi – e forse anche per questo rischiamo di scomparire. Poi ci sono stati altri scienziati, paleontologi come Richard Leakey, che hanno parlato di sesta estinzione di massa. Ovviamente non è un dato che possiamo constatare immediatamente, ma sappiamo che andiamo in questa direzione. E questo dovrebbe sconvolgere le menti e la sensibilità dell’uomo del nostro tempo. Ma abbiamo anche visto che questo non succede. Nonostante gli scienziati ci abbiano avvertito, nonostante tutta la letteratura scientifica e divulgativa sui cambiamenti climatici ecc., gli uomini di oggi sembrano dei sonnambuli che stanno correndo verso un precipizio, incapaci di svegliarsi, incapaci di mutare la loro rotta. Dobbiamo constatare anche questo, che sapere non basta. Evidentemente occorre attivare altre energie, che ci sono nell’uomo, anche se oggi sopite.

TG È quello che lei chiama ruolo suscitatore del discorso letterario, che è una capacità di suscitare emozioni, ma anche di inquadrare gli eventi in modo diverso, per esempio allargandosi alle vite di popoli diversi, di parti diverse del nostro globo; oppure allargando lo spettro temporale in modo molto più vasto di come sia stato fatto finora, non semplicemente le successive epoche storiche ma anche le ere geologiche e biologiche come l’Antropocene. Quello che volevo chiederle è questo. Non c’è il pericolo che se noi raccontiamo in termini di ere geologiche finiamo col percepire ridotto lo spazio di iniziativa degli esseri umani, proprio perché pensiamo nella logica e nell’ottica dei grandi cicli naturali?

CB Questo è il modo di ragionare dei moderni. Forse anche per le strutture mentali e di giudizio che si sono calcificate nella modernità, abbiamo questa abitudine di percepire la storia entro tempi limitati e di percepire lo scenario in cui viviamo come una natura esterna all’uomo, con cui non interferiamo. Ma se noi guardiamo a altre culture o a letteratura del passato, ad esempio a Omero, la percezione della vita umana era molto diversa. Eppure non è che non riuscivano a suscitare, anzi riuscivano a suscitare molto di più di quello che fanno certi romanzi odierni o del 900, che raccontano la vita umana dentro a un orizzonte molto limitato, fatto solo di fattori economici e culturali, e che esclude tutte le forze naturali: che esclude i batteri, i virus… Non dimentichiamo che anche i virus fanno parte di questo habitat in cui viviamo, e infatti la pandemia ci ha molto colpiti come un fatto che non rientra nella logica storica, della Storia con la maiuscola, a cui siamo abituati. Ma io credo che le grandi opere del presente e del passato siano sempre riuscite a inquadrare le vita umana dentro a questo orizzonte più vasto. Un orizzonte che è spaesante solo per chi non è più abituato a concepirlo, per chi è abituato a rimuoverlo, a lasciarlo fuori da quello che consideriamo l’ambiente pertinente, significativo, e cioè – ripeto – quello soltanto culturale, storico, economico. Ma c’è anche questo abisso del mondo, in cui noi viviamo. I moderni lo hanno cancellato, però è sempre lì, ci siamo dentro, viviamo dentro a questo habitat insieme a tante altre specie viventi, non solo animali, piante ma anche batteri e virus. La sensibilità a questo tipo di dimensione e di realtà era molto forte nella letteratura antica – pensiamo a Omero. Ma possiamo pensare a tanti altri scrittori, anche moderni. Eppure l’abbiamo rimossa, abbiamo costruito una sorta di fondale di teatro dove gli uomini si muovono. La letteratura, con la sua capacità di trasportare nello stesso tempo pensiero e emozioni, può riabituare l’uomo a una diversa sensibilità nei confronti . dell’ambiente in cui vive.

TG Prendiamo per esempio una categoria come quella di comunità. I romanzi della nostra tradizione, le narrazioni in generale, anche spostandosi indietro di secoli e di millenni, spessissimo sono state costruite attorno a un qualche tipo di comunità, una famiglia, uno stato, un esercito e via dicendo. Mi sembra che uno dei suggerimenti che ci vengono dal suo libro è quello di pensare una comunità verticale e non solo orizzontale, o forse verticale più ancora che orizzontale, cioè una comunità che unisce diverse generazioni. A un certo punto lei cita l’espressione “internazionale delle generazioni”, come una prospettiva praticabile. Se pensiamo la comunità soprattutto come qualcosa di transgenerazionale, c’è il rischio che non cogliamo più le comunità nella loro specificità, così come siamo abituati a pensarle?

CB Io questo rischio non lo vedo. “Internazionale delle generazioni” è un’espressione di Gunther Anders, che pensava a una solidarietà tra gli uomini, del passato del presente e del futuro, quella che noi abbastanza dimentichiamo. È la prima volta che l’umanità – non tutta, perché non tutti siamo responsabili allo stesso modo – esercita una violenza sui viventi di domani. È la prima volta che succede nella storia dell’uomo. Noi sappiamo dalla storia e dalla preistoria che l’uomo si è sempre portato dietro stermini e ferocie a cominciare dallo sterminio dell’uomo di Neanderthal – se è vero che la sua sparizione si deve all’homo sapiens. Ma oggi, oltre a questo, c’è in più il fatto che noi questo tipo di violenza la esercitiamo su quelli che verranno dopo di noi, sulle generazioni future.

TG Ma questo accade in ogni massacro. Se io metto a ferro e fuoco una città, rendo terribile la vita anche per coloro che nel futuro vivranno in quello stesso luogo.

CB Sì, certo. Solo che in questo caso il massacro diventa globale. Perché se distruggi questa pellicola di atmosfera che permette la vita a noi e a tante altre specie viventi, le quali contribuiscono a mantenerlo, è chiaro che sarà un massacro di dimensioni inimmaginabili, mai successo prima.

TG Certo, le dimensioni cambiano.

CB Quindi, tornando alla comunità… tutto questo ci spinge a un’altra idea di comunità, una comunità di specie, che però fa molta fatica a venir fuori. Siamo abituati a pensare alle nostre piccole identità, nazionali, religiose, etniche, ma non a quella di essere abitanti di un pianeta, di questo piccolo pianeta che sta in una galassia sperduta dell’universo, protetti dall’atmosfera, da questo sottile strato che ci difende dalle radiazioni cosmiche e che permette la vita a tutti i viventi, a cui la nostra stessa vita è connessa: piante, animali, elementi naturali. Ecco, questo dovrebbe favorire un’altra idea di comunità, una comunità di specie, che porta a un affratellamento, mentre le piccole identità ci spingono al conflitto. È un po’ quello che dice anche Leopardi, nel suo ultimo canto “La ginestra”, quando pensa a un’umanità affratellata, confederata, che prende consapevolezza della propria condizione fragile, che può essere distrutta da un moto della Terra, da un terremoto, da un’eruzione vulcanica, dal Vesuvio, dove lui scrive la poesia. È una cosa che forse, per la sensibilità dei moderni, appare strana, impossibile. Invece è possibile. È possibile se si pensa a testi letterari del passato, a Omero, come ho già ricordato. Ma c’è una cosa importante da dire. Noi non abbiamo mai percepito finora la possibilità di non avere dei posteri. Fino a ora abbiamo potuto immaginare una fine della specie umana come qualcosa che può avvenire in un futuro indeterminato. Ma adesso siamo di fronte alla consapevolezza che potrebbero anche non esserci dei posteri, che i figli dei nostri figli e dei nostri nipoti non riusciranno più a sopravvivere in questo habitat, che noi avremo distrutto. E questo fa vacillare tanti capisaldi del nostro modo di ragionare, del nostro modo di vedere il mondo e la storia, perché una cosa del genere scuote le fondamenta e ci fa ripensare tutto. L’idea di non avere dei posteri è qualcosa che impedisce anche di agire, perché tutte le imprese, le grandi imprese dell’uomo, sono sorrette dall’idea che ci sarà qualcuno dopo di noi che ne beneficerà o ce ne renderà merito. Ma nel momento in cui crolla questa idea della posterità, chiaramente ogni cosa ne viene scossa. E da questo bisognerebbe partire per un cambiamento nei modi di pensare.

TG Tra l’altro, c’è un’osservazione che lei fa, e che è molto interessante, credo, perché ci fornisce un ulteriore motivo per leggere la letteratura postcoloniale. Lei dice: “guardate che l’esperienza di essere coloro che sono sopravvissuti a una civiltà che è stata spazzata via, è sì un’esperienza che noi cerchiamo di trasmettere attraverso romanzi che parlano di crisi ambientale, per mettere in guardia su ciò che potrebbe accadere; ma in realtà è anche un’esperienza che è già presente tra noi, perché è l’esperienza dei popoli che hanno subito la colonizzazione e che hanno visto un intero mondo venire praticamente cancellato dalle potenze colonizzatrici”. È un’osservazione molto fine e molto interessante. Ma ce n’è un’altra su cui le chiederei di dirci qualcosa di più. Perché per certi versi La letteratura ci salverà dall’estinzione è un manuale, o per lo meno una raccolta di indicazioni su come si può continuare a scrivere nel contesto della crisi presente. E una di queste indicazioni è la questione del linguaggio. Lei si sofferma a parlare del linguaggio di Greta Thunberg e di altri giovani della sua generazione, mostrando che si tratta di un uso della lingua che evita deliberatamente tutti i termini complessi, che hanno a che fare con concetti teorici elaborati, che appartengono alla filosofia politica: non si parla di “imperialismo” e altre nozioni di questo tipo. Potremmo discutere su fino a che punto questo sia accurato. Ma mi interessava capire meglio se questa è anche un’indicazione per futuri scrittori e future scrittrici.

CB Mi fa piacere che abbia ricordato questo aspetto. Mi pare che questi adolescenti usino un linguaggio primario. Mai si trovano parole come “capitalismo”, “imperialismo”, per lo meno non nei discorsi di Greta Thunberg. Non è che non considerino queste cose un male, al contrario. Però usano altri termini, per esempio il “capitalismo” viene espresso così: “una società che sacrifica la civiltà per permettere a poche persone di fare profitti”, e cose del genere. È un linguaggio dotato di una grande forza. Non è che non sia complesso. Solo non è tecnico. Noi siamo abituati – per lo meno gli adulti – a usare parole tecniche, precise. La cultura ci fornisce tanti strumenti per definire. Ma sono anche dei concetti che allontanano la percezione della cosa, la percezione della stortura e del male che c’è in queste cose. Questo tipo di linguaggio la letteratura è abituata da sempre a usarlo. Pensiamo a Tolstoj, quando invece di dire “fustigare”, dice “denudare, buttare a terra e colpire con le verghe”. È un caso che i critici letterari chiamerebbero di “straniamento”, che ha cioè la capacità di sottrarre l’oggetto alla percezione solita, all’abitudine che ne rimuove la gravità. E questa è una forza della letteratura, senz’altro. Per quanto riguarda i giovanissimi, io credo che la fanciullezza, assieme alle culture lontane che l’Occidente ha considerato” primitive” – o a quello che ne resta dopo la colonizzazione – e assieme alla letteratura, siano tre zone cruciali del nostro mondo: zone che sono sottratte ai paradigmi dominanti. Si suole dire che i giovanissimi sono stati più colpiti dall’emergenza ambientale perché hanno una maggiore speranza di vita, mentre gli adulti pensano che saranno già morti quando succederà qualcosa di grave. Può darsi che sia anche questo. Ma io vedo anche nella fanciullezza, come l’hanno vista tanti filosofi e scrittori, a cominciare da Leopardi, una zona dell’uomo in cui ancora si percepiscono le cose e i fenomeni al di fuori di questi meccanismi culturali che rimuovono le storture e ci abituano alla loro normalità, come se fossero normali. Fanciullezza, culture ”primitive” e letteratura sono tre zone da cui ci si può aspettare molto, proprio perché qui bruciano con più forza l’immaginazione e la capacità d’indignazione…. Per esempio, noi adulti siamo abituati a sopportare la contraddizione tra il sapere e l’agire. Noi sappiamo di questa catastrofe climatica che ci aspetta se non cambiamo rotta, eppure non facciamo niente per arginarla. Questa contraddizione gli adulti la sopportano, ma i giovanissimi non riescono nemmeno a capirla, e s’indignano.

TG Forse in questo c’è una speranza.